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La leggenda di Messer Filippo | Spilamberto

Progetto e disegni a cura degli alunni dell’Istituto Comprensivo “Severino Fabriani” di Spilamberto.

SPILAMBERTO (Modena) – La porta della torre si apre davanti a una scala di mattoni che s’ arrampica per cinque rampe sempre più strette fino a una stanza col soffitto alto. E’ la prigione dell’ antico castello dei nobili Rangoni e gli anelli di ferro ancora infissi nei muri fanno immaginare catene e lamenti di disgraziati. Una delle pareti è occupata da un’ altra rampa di scale che sale ancora più su e nello spazio stretto del sottoscala s’ apre una porticina che pare una finestra affacciata sull’ inferno. Il prigioniero che disegnò la sua storia d’ amore e morte Filippo, detto il diavolino, fu rinchiuso nel ‘ 500 nella torre di Spilamberto Sulle pareti della cella la passione per la bella castellana in versi e «fumetti» La seconda puntata della serie «Amori e misteri» è dedicata a una tragica storia d’ amore di 500 anni fa. Fu scritta e disegnata, come un fumetto, da un mercante spagnolo prigioniero. La prima puntata, dedicata a una ragazza rapita dai pirati in Maremma, è stata pubblicata il 3 agosto. Una finestra perché la soglia è a una cinquantina di centimetri dal pavimento, sull’ inferno perché immette in uno spazio che somiglia più a un’ intercapedine che a una cella. Qui venne imprigionato, nel Cinquecento, un certo Messer Felippus che raccontò sulle pareti di questa prigione, con testi e disegni, la sua tragica storia d’ amore e di morte. La cella è talmente piccola che sembra difficile persino entrarci. Per farlo bisogna scavalcare la soglia alta, sgusciar dentro di traverso e tenere la testa abbassata. E quando si è dentro lo spazio risulta ancora più stretto. Messer Filippo dovette vivere chissà quanto in questa cella lunga un metro e ottanta e larga meno di un metro, dov’ è possibile stare in piedi solo in un punto, perché il soffitto scende subito verso il basso (siamo in un sottoscala) e obbliga a stare con la schiena piegata. O sedersi su uno scalino ricavato nello spessore del muro esterno, subito sotto una finestrella non più grande di un libro e chiusa da un’ inferriata a croce. Bastano pochi minuti lì dentro per chiedersi come sia possibile viverci mesi o anni senza impazzire. Vien d’ istinto avvicinarsi alla finestrella, quasi per scappar fuori almeno con lo sguardo, ma si vede poco anche perché quel pezzettino di cielo è occupato da una colomba che ha fatto il nido accanto alle sbarre e sta covando senza curarsi troppo dell’ intruso. Forse anche Messer Filippo ebbe la compagnia dei colombi che vivevano sulla torre, e con loro sognò di volar via. Ci vuole un po’ per superare il senso di oppressione e cominciare a guardare le pareti dove parole e immagini si sovrappongono confuse e raccontano una storia ancora tutta da interpretare. Si vede Messer Filippo con un archibugio in mano, un veliero che pare spagnolo, la bella castellana elegantissima, un bambino, strumenti di tortura, diversi stemmi nobiliari, ancora la castellana che tiene un bambino per i piedi e – ripetuta più volte – la figura di una donna in abito scuro con la spada in una mano e una testa decapitata nell’ altra. E tante scritte, spesso incorniciate come fossero quadretti, dove si leggono in prosa e poesia parole d’ amore che echeggiano il dolce stil novo, suppliche disperate, dichiarazioni d’ innocenza e di sconforto, tristi presagi di morte e tante scritte ancora, spesso poco leggibili. «Questo fotoromanzo di 500 anni fa venne scoperto per caso nel 1947 – spiega Paola Corni, responsabile del settore Cultura del Comune di Spilamberto -. Nel corso di certi lavori di riparazione della torre, venne abbattuta una paretina sotto la rampa di scale e apparve la cella. Sul pavimento c’ erano ancora i resti di un pagliericcio, che in pochi giorni si polverizzò. I muri erano completamente coperti di scritte e disegni rimasti sigillati forse dal giorno in cui Messer Filippo venne giustiziato». Dopodiché qualcuno murò la porticina e lentamente tutti dimenticarono quel prigioniero grafomane. A vedere questa storia ritornata dai secoli vennero i funzionari dell’ Archivio di Stato di Modena che esaminarono i disegni e lessero come poterono le iscrizioni un po’ confuse arrivando alla conclusione che si trattava di una storia scritta da un prigioniero. Un uomo che forse era finito in quella cella per l’ amore di una donna. «Io sono Filippo chiamato il diavolino/ che mai più so stato in prigione ma la mia vita fo martorizzata/ che de a chosì certamente perché fo meschino non feci a nisiuno male…». Il protagonista s’ è subito presentato dicendosi innocente e incensurato, e in un altra scritta spiega come finì in prigione: «Signori io stava iqui per li fatti miei e non dava fastidio a nessuno/ abensongia che ve lo dica/ che fo respinto da una dona che non ma voluto vedere dipinto/ ma se io potesse una volta giustizia fare/ per penetensia glie vorria dire che andasse là donde me lasase stare/ Volete vedere che questa è una bella festa/ che questa dona ma fatto rompere la testa… Donna crudele e ingrata/ io in lei servire e lei me maltrattare». Messer Filippo dice che se ne stava per i fatti suoi senza fare male a nessuno e accusa una donna del suo tragico destino. Prova rancore verso di lei, ma in un’ altra iscrizione il tono cambia del tutto. «Le amorose fiamme il core me acende/ per tuo amore a le cose mia bella/ se questa infelice vita iqui resta/ la nostra alo spirto farà da te ritorno…». Una dichiarazione d’ amore eterno ribadita anche in un’ altra frase: «Sempre la sua figura adorerò/ sempre servo devoto sarò…». Tante scritte difficili da leggere, un po’ sbiadite e a volte contraddittorie, ma che comunque portarono gli esperti a immaginare una storia più o meno così. Messer Filippo era un mercante di stoffe di probabile origine ispanica che in un anno imprecisato del Cinquecento si presentò al castello di Spilamberto, dei nobili Rangoni, per vendere preziosi tessuti portati da oltremare. Venne bene accolto e ospitato a lungo dal signore e dalla castellana che subito fu attratta da broccati e sete, ma anche dal mercante, un uomo «ne colto ne ignorante», ma che aveva viaggiato molto e frequentato nobili e potenti. Così sbocciò una storia d’ amore non proprio platonico e dopo nove mesi nacque un bel bambino che il signore del castello non riconobbe affatto come suo. Non gli ci volle molto a capire chi era il padre. Messer Filippo venne rinchiuso in quella cella nel sottoscala (forse fatta apposta per l’ occasione), dove mentre aspettava il boia ebbe il tempo per realizzare il fumetto della sua tragica storia. E per farlo grattò dal muro il nerofumo che lo copriva (prima in quel punto c’ era stato un camino) e lo impastò come poté per farne inchiostro con cui scrisse e disegnò. Questo racconto è stato ripetuto per anni tra la gente di Spilamberto e col tempo s’ è arricchito di inchiostro impastato col sangue e anche del fantasma del Diavolino, che nelle notti d’ estate qualcuno sente ancora piangere e disperarsi. Nessuno ha mai avuto dubbi sulla storia del mercante spagnolo, anche se molti tasselli del mosaico non tornavano. Ad esempio: che ruolo ha nella vicenda di Messer Filippo quel bambino tenuto per i piedi? Perché Filippo accusa la sua amata di averlo respinto e di non volerlo vedere nemmeno dipinto, se invece lo accolse tra le sue braccia? Quella testa mozzata nelle mani della donna armata di spada è il futuro che Filippo si aspetta o allude ad altro? Quella donna è la sua amata o un’ altra donna? In realtà queste immagini paiono appartenere a una storia differente, come quella suggerita da alcune delle iscrizioni che ci portano non in Spagna, ma nelle Marche: «Ego Felippus fermanus». Messer Filippo era di Fermo? Da una supplica che lui rivolge al padrone del castello in un’ altra iscrizione sembrerebbe proprio di sì: «Choma signore illustre almo et soprano/ dona, singiore, la libertà al poverin marchisano…». Ma di chi sta parlando Filippo quando pare minacciare rivelazioni scottanti? «Dirò della sovarrana e pure de Giulia/ sua figlia ché quella è matre sua/ un laccio d’ oro a lè a messo al chollo…». Negli anni Sessanta qualcuno rispolverò questa storia e cercò una spiegazione a tanti dubbi riportando diversi brani dei testi scritti nella cella. Fu una fortuna, perché oggi molti di quei brani li ha cancellati il tempo e senza quelle trascrizioni sarebbe ancora più difficile capirci qualcosa. In quell’ occasione fu registrata anche una diversa interpretazione della storia. In questa seconda versione si ipotizza che Messer Filippo sia stato al servizio di Caterina Cybo, la nobildonna che nel 1520 sposò Giovanni Maria Varano, duca di Camerino. Sette anni dopo Caterina rimase vedova e quando arrivò il momento non rispettò la volontà del defunto marito il quale aveva lasciato detto che sua figlia Giulia, di 13 anni, andasse sposa a uno dei Varano di Ferrara. Caterina invece, per motivi non proprio sentimentali, la fece maritare con Guidobaldo II della Rovere. Per impedire il matrimonio diversi pretendenti al ducato attaccarono Caterina, ma alla fine lei ebbe partita vinta e quello che ci rimise più di tutti fu tal Venanzio di Serra San Quirico, che aveva appoggiato uno dei pretendenti sconfitti tradendo la fiducia di Caterina. Lei non dimenticò lo sgarbo e appena possibile gli fece tagliare la testa. La conclusione di questa seconda interpretazione dei graffiti è che probabilmente Messer Filippo venne rovinato dalla stessa donna, Caterina Varano. Nelle sue scritte, infatti, il disgraziato parla di una sovrana che aveva una figlia di nome Giulia, alla quale la madre mise un laccio d’ oro al collo (il matrimonio col Della Rovere?). E vien da pensare che sia proprio lei la donna di cui Messer Filippo si innamorò perdutamente. Ma perché lei lo volle rovinare? «La mia vita fu martorizata», dice Filippo a un certo punto, ma non dice il perché di tanto rancore nei suoi confronti. Di certo da quella donna con la spada in mano e la testa tagliata nell’ altra non c’ era da aspettarsi troppe tenerezze. Comunque, anche questa versione della storia ha degli elementi convincenti e altri meno. Allora perché non pensare che tra le due storie – l’ avventura con la castellana e l’ antico amore per Caterina la vendicatrice – ci sia un legame che ci sfugge? Si tratta forse di un’ unica storia che non riusciamo più a dipanare? Sono passati più di 50 anni da quando venne scoperta la cella nella torre e pochi si sono dedicati a rimettere insieme il tragico messaggio lasciato da Messer Filippo. I «fumetti» sono stati un po’ dimenticati e il tempo ha lavorato per annebbiare i disegni e confondere quelle parole scritte col nerofumo, ma davvero bagnate di sangue. Ora, finalmente, qualcosa si muove e pochi giorni fa i tecnici di un istituto specializzato in conservazione e restauri (Fondazione Cesare Gnudi) sono entrati nella piccola cella per dare inizio alla prima fase di indagini che porterà al restauro. L’ intervento vero e proprio potrebbe iniziare già in autunno e in un paio d’ anni il testamento di Messer Filippo potrebbe tornare a essere leggibile, per raccontarci perbene quell’ antica storia d’ amore finita in tragedia. Viviano Domenici vdomenici@corriere.it (2 – continua) La mappa E LE LEGGENDE LA VISITA DELLA TORRE Per visitare la Torre e la cella di Messer Filippo, occorre prenotare telefonando al Settore Cultura del Comune di Spilamberto: 059/789.964. Adesso la Torre ha cambiato destinazione d’ uso: fino a qualche tempo fa era la sede della Consorteria dell’ Aceto balsamico, di cui Spilamberto è la capitale (la sede si è spostata solo di pochi metri) ed è rimasto l’ Ordine del Nocino modenese. LA FAVOLA DEL DRAGO Un altro motivo di interesse legato alla Torre è la storia del drago Magalasso, un serpente col corpo a strisce colorate e occhi e denti da uomo. Un mostro che spaventava la gente costringendola a rifugiarsi in cima alla Torre. Pare che la favola nasconda una lezione di storia. Il mostro, infatti, rappresentava i signorotti della zona ai quali il popolo resisteva combattendo dalla Torre, che ancora oggi è simbolo del popolo di Spilamberto, e non del Signore di turno.